Alla Biennale la Michelson porterà il suo ultimo progetto, Shadowmann, costituito da due parti distinte: nella prima parte capovolge la disposizione del teatro invertendo la tradizionale sistemazione di spettatori e danzatori. La gradinata finisce sul palcoscenico e le grandi porte dell'ingresso costituiscono il fondale. All'inizio dello spettacolo le luci al posto di scendere salgono, le porte dell'ingresso invece di chiudersi si spalancano, e per tutto il tempo della rappresentazione, dalla strada esterna, due danzatrici, illuminate da un occhio di bue e vestite di una tunica gialla, camminano in sincronia fino all'edificio sul lato opposto al teatro per poi tornare danzando con piccoli movimenti laterali nello spazio della performance. Nella seconda parte, la Michelson trasforma la piccola stanza della performance in un boudoir tappezzato di bianco, con un tenda di chinz fittamente goffrata che copre un'intera parete dal pavimento al soffitto. L'intimità creata per questo secondo atto, dove i danzatori non mantengono nemmeno la tradizionale distanza dagli spettatori, è un perfetto contrappunto con i campi lunghi della prima. Entrambi i punti di vista creano un effetto cinematografico affascinante, come se ogni ambiente scenico fosse una location cinematografica e gli occhi di ogni spettatore una telecamera che insegue i protagonisti attraverso scene connesse ma separate.