L’aggettivo “wagneriano” non definisce nell’Ottocento una serie di principi tecnici riconosciuti o una precisa estetica, ma più in generale un gusto per il “bizzarro”, lo “scientifico” e il “moderno”. È solo perché si scontra con la mentalità francese e si contrappone alla concezione del teatro lirico come luogo di distrazione che la musica di Wagner viene frettolosamente assimilata a uno stile sconvolgente: quello della “musica dell’avvenire” che perora la “melodia infinita”. Ma lo si conosce bene, Wagner, a Parigi? No di certo, poiché bisogna attendere la prima di Lohengrin nel 1891 perché l’Opéra tenga a lungo in cartellone un’opera del maestro.
In precedenza gli scandali successivi del Vascello fantasma (1841) e soprattutto di Tannhaüser (1861) avevano avuto, alla fin fine, ripercussioni molto più politiche che musicali. Ciò non toglie che il “wagnerismo”, inteso questa volta come procedimento artistico, susciti dopo gli anni Ottanta un entusiasmo che esplode tanto negli ambienti altolocati della capitale francese (il viaggio a Bayreuth è di rigore per il perfetto snob) quanto nei salotti artistici d’avanguardia.
Ci si dimentica tuttavia che esiste una giusta via di mezzo tra il calvinismo francese e il wagnerismo militante: quella di un “germanesimo” moderato quale viene perfettamente illustrato da Théodore Gouvy, che in piena bufera wagneriana comporrà invece pagine in cui permane l’estetica di Mendelssohn e Schumann, soffusa di qualche effluvio brahmsiano.