Di Gino Rocca, regia di Giuseppe Emiliani e con MASSIMO SOMAGLINO, ADRIANO IURISSEVICH, ANDREA PENNACCHI,
SILVIA PIOVAN, CHIARA SALERI, SANDRA MANGINI, ILARIA PASQUALETTO, GIANMARCO MAFFEI
musiche di Massimiliano Forza, arrangiamenti di Fabio Valdemarin.
Il progetto di recupero della drammaturgia veneta che negli ultimi anni ha ridato vita a Tramonto di Renato Simoni, La Base de tuto di Giacinto Gallina, Quando al paese mezogiorno sona di E. F. Palmieri e Nina, no far la stupida di Arturo Rossato e Gian Capo si arricchisce per la stagione 2010 /2011 di un nuovo e importante tassello: in questo viaggio nel migliore repertorio veneto - soltanto in apparenza divertente o dedito alla ripetizione di schemi goldoniani, in realtà capace di graffiare come pochi altri, di andare a ficcare il naso nelle miserie quotidiane di case e famiglie assai rispettabili – non poteva mancare un testo di Gino Rocca. Abbiamo scelto “Se no i xe mati, no li volemo”, scritto nel 1926 e portato all'attenzione da Gianfranco Giachetti e poi dal cinema da Cesco Baseggio, ma che ha vantato però poche edizioni successive. L’ultima, eccellente, è legata a Giulio Bosetti che nel 1997, allora direttore del Teatro Stabile del Veneto, ne curò la regia e interpretò la figura del dolente e toccante Momi Tamberlan. A Giuseppe Emiliani oggi il compito di riportare sulla scene la vitalità straordinaria di un testo in cui franca comicità si mescola a una struggente malinconia. Compagno di viaggio di Teatro Stabile del Veneto e Teatri Spa è il Teatro Carcano di Milano, la compagnia diretta da Bosetti fin dalla sua fondazione. Proprio a Giulio Bosetti, a cui il teatro deve molto e in particolare il teatro veneto, dedichiamo Se no i xe mati, no li volemo.
Siamo in una sonnolenta cittadina fra Venezia e Padova, in un palazzo fatiscente che un bizzarro nobiluomo, morendo in giovane età, ha lasciato con tutto il resto del suo patrimonio a una congregazione di carità, ma destinandone l'usufrutto, finché saranno in vita, ai nove amici che hanno condiviso la sua esistenza scioperata e innocentemente trasgressiva e assieme ai quali ha addirittura fondato un’associazione che porta il glorioso nome di “Se no i xe mati, no li volemo” . Dei nove, all'inizio del racconto soltanto 4 sono in vita (uno emigrato in America) e dei tre rimasti nessuno, ovviamente, ha più ne la forza ne la voglia di coltivare quell'antica fama. Sono Piero Scavezza che ha oramai perso il vigore di un tempo e guarda al momento in cui la morte lo ricongiungerà con il figlio caduto in guerra; Bortolo Cioci, diventato un brontolone ruvido e nevrotico e Momi Tamberlan, architetto stravagante e incompreso sposato in seconde nozze con la giovane Irma, che con le sue pretese e un tenore di vita sopra le possibilità di Momi, sta mandando in rovina la famiglia.
Un brutto giorno l'avvocato Giostra, altero e baldanzoso, porta loro la ferale notizia che l'immobile, da loro occupato, proprietà della Congregazione, non spetta più loro di diritto perché da tempo i soci non rispettano le clausole dello statuto che prescrive, per ogni membro, una perenne vita spregiudicata e goliardica di cui essi devono quotidianamente dar prova. Malgrado la avanzata età e i crucci delle rispettive situazioni personali, i tre decidono di tornare a fare 'i matti' come ai tempi delle lontane imprese studentesche, nel tentativo di recuperare i loro diritti inseguendo una impossibile giovinezza.
Il guaio è che i loro fisici non resistono alla prova e la farsa si trasforma in dramma, quasi in tragedia.